sabato 8 dicembre 2012

Ato colpevole, doveva indire gara rifiuti


I giudici del riesame: il contratto con Enia decaduto il 31 dicembre 2010

Un enorme vantaggio per Iren, per la legge ingiustificato e in dolo.
La convenzione tra Ato2 e Enia, subentrata ad Amps, è scaduta il 31 dicembre 2010.
Lo dicono i giudici del riesame nell'ordinanza che ha respinto il sequestro del cantiere dell'inceneritore.
Il riferimento è l'art. 23-bis comma 8° del decreto legislativo 25 giugno 2008, numero 112, convertito dalla legge numero 133 del 6 agosto 2008.





In questo articolo di legge emerge che la posizione di Enia non può che essere collocata alla lettera e) del provvedimento, quella per l'appunto che fissa la scadenza dei contratti a fine 2010.
Nessuna eccezione per la multiutility.
Ad Enia infatti non era stata affidata la gestione dei rifiuti “in house”, la partecipazione dei privati nella società non è stato frutto di una procedura ad evidenza pubblica ma di un acquisto da parte di Agac, e pur essendo quotata in Borsa, Enia non aveva partecipazione pubblica totalitaria.
I giudici del riesame stabiliscono così il dolo di Ato2 Parma che non ha provveduto ad indire una gara pubblica per l'affidamento del servizio.
La scadenza al 31 dicembre 2010 era automatica e non vi era alcuna necessità di deliberazione da parte dell'ente affidante.
Enia è stata così avvantaggiata in modo gravemente rilevante.
Due anni di servizio senza alcun titolo e con introiti ingiustificati.
I giudici ravvisano anche l'intenzionalità di tale comportamento visto il perdurare della situazione senza che ci sia stato alcun intento di rimedio da parte di Ato2.
Ma l'analisi puntuale dei giudici si concentra anche su un altro passaggio fondamentale: l'approvazione del Pai con le delibera provinciale del 2008, la cosiddetta Via (Valutazione di Impatto Ambientale).
Il “prodotto” Pai nasce fallato già nella sua deliberazione di nulla osta.
Viene infatti rilevato, come misero in evidenza gli avvocati De Angelis e Allegri, che l'inceneritore di Parma sia un impianto privato, pur di interesse pubblico, costruito su area privata.
Non ha quindi fondamento riferirsi alla legge regionale 31/2002, lettera d), che riguarda invece le opere pubbliche, come invece fece Enia anche sui cartelli di cantiere, per evitare gli oneri.
Ciò significa secondo i giudici che quella delibera consumò il reato di abuso d'ufficio, visto che esentò apparentemente Enia dalla corresponsione degli oneri urbanistici, 420 mila euro circa, dovuti al comune di Parma.
Abuso d'ufficio commesso da tutti gli attori protagonisti di quell'atto.
Ma se gli oneri andavano pagati come mai Enia non ha mai fatto richiesta del permesso a costruire?
E' legato a questa facile strada indicata gentilmente ad Enia l'ipotesi di corruzione che coinvolge Emanuele Moruzzi.
Il risparmio sugli oneri sarebbe stato “investito” nelle compensazioni riconosciute dalla multiutility ai comuni limitrofi, tra i quali Parma fu capofila anche come importo.
Il permesso a costruire era quindi necessario per legge, secondo quanto disposto dagli articoli 8, 9 e 12 della l.r.31 del 25 novembre 2002.
I giudici invece considerano come conferito il permesso a costruire da parte del comune di Parma che attraverso la partecipazione alla Conferenza dei servizi con il loro rappresentante Emanuele Moruzzi, con la relativa approvazione da parte dell'ente diedero assenso anche ai permessi di carattere edilizio, che il 23 febbraio 2010 furono resi conformi dalla nota di Tiziano Di Bernardo, direttore del servizio di pianificazione territoriale.
Anche la scadenza dei permessi viene correlata alla dichiarazione di conformità rilasciata il 23 febbraio 2010. Significa che i lavori dovevano avviarsi entro 1 anno da quella data e concludersi entro 3.
L'inceneritore deve quindi essere completato entro il 23 febbraio 2013, pena la decadenza del titolo edilizio (si capisce la fretta di Iren).
Più di scava nell'iter dell'inceneritore, più evidenti emergono irregolarità e illegalità.
Altroché progetto all'avanguardia!

Associazione Gestione Corretta Rifiuti e Risorse di Parma - GCR
Parma, 8 dicembre 2012

venerdì 7 dicembre 2012

Il regno di Mordor

No al sequestro dell'inceneritore, ma le indagini vanno avanti

La prima gelata invernale è fuoriuscita dal tribunale.
Parma non è ancora imbiancata eppure abbiamo provato un gelo pungente.
Ma siamo ormai preparati e irrobustiti da questi anni di lotta, i mulini a vento li conosciamo pala per pala, i muri di gomma sono il nostro pane quotidiano.
Non ci spaventiamo né arretriamo mai, nemmeno questa volta.
La storia dell'inceneritore la conosciamo nel profondo.



E nelle sue profondità anche il procuratore di Parma ha scoperto tante pecche, tante da farci una collezione.
Tante ombre che lo avevano convinto a chiedere il sequestro del cantiere.
Non è bastato.
La salute, l'ambiente, i valori di una comunità, sono calpestati da 50 anni.
In Italia alla fine sembra sempre avere il sopravvento la convenienza, i poteri, il business.
A Taranto un'intera città è tenuta sotto ricatto da decenni.
Le acciaierie esistono anche in altri Paesi, ovviamente, ma solo in Italia è possibile mantenerle ad un livello di sicurezza così basso.
Anche la storia del Paip non può fare eccezione.
Lo si capisce già da quell'aggettivo, ambientale, che nasconde la “a” dell'acronimo.
Cosa può centrare una industria insalubre di classe prima, la più pericolosa, con l'ambiente?
Eppure per sostenere il progetto ci si è dati da fare, nascondendo cose e mostrandone altre.
E' colpevole anche la città, distratta da altri luccichii, improvvisamente ritrovatasi in grembo un camino che non avrebbe voluto mai, se avesse capito da subito cosa celava.
Colpevoli in particolari quelle associazioni “ambientaliste”, le virgolette sono d'obbligo, che in questi anni si sono distinte per il loro silenzio, la loro timidezza e le loro esitazioni, imperdonabili assenze che hanno fatto il gioco del forno, ognuno con il suo mattoncino ha costruito pazientemente il puzzle.
Ai cittadini è stato ripetuto il mantra del troppo presto e del troppo tardi.
Al primo ricorso era presto per gridare al rischio ambientale e sanitario (nulla era costruito), per poi ripiegare su un “ormai è tardi”, quando il pacchettino era bello e pronto per essere servito sulle tavole dei parmigiani.
Nessuna ombra è stata finora fugata sul progetto dell'inceneritore.
Sappiamo che Iren non era titolare di nessun contratto di smaltimento quando Ato e Amministrazione comunale hanno deliberato il loro nulla osta al progetto, esibendo negli atti proprio queste credenziali inesistenti.
Sappiamo di pagare una tariffa del 50% e del 100% più alta per gli smaltimenti, quando una legge regionale indicava la necessità di autorizzazione per sforamenti oltre il 20% della media.
Sappiamo che il progetto è stato affidato al concorrente Hera senza alcuna gara d'appalto.
Nessuno ha potuto vedere il piano economico finanziario che faceva parte degli accordi di trasparenza premessi nella delibera del 2006 (oggi sono passati 920 giorni da quando lo abbiamo chiesto ufficialmente alla multiutility).
Troppi silenzi, troppi misteri, troppe ombre.
Che in un servizio pubblico non dovrebbero esistere mai.
Perché questo settore tocca da vicino le tasche di tutti noi e in più rispetto alla modalità di gestione modifica i rischi sanitari connessi.
Il Riesame, rigettando la richiesta di sequestro, ha mosso comunque pedine importanti, riaffermando la bontà delle indagini in corso, anzi peggiorando i sospetti sull'iter del progetto introducendo l'ipotesi di corruzione, a carico di dirigenti di Iren e Comune, ipotesi di reato fin qui non emersa.
Altra tegola sul Paip l'ipotesi di abuso d'ufficio a carico di Elvio Ubaldi e Roberto Bianchi, che non avendo provveduto, in veste di presidenti di Ato, alla gara pubblica per l'appalto della gestione rifiuti, hanno concesso un vantaggio di rilevante gravità ad Iren.
Molto pesante appare il tema della corruzione, che sembra essere il registro che ha permesso ad Iren di ottenere i titoli per portare a termine il progetto ottenendo diversi vantaggi anche economici come l'aver potuto omettere, fino ad oggi, gli oneri di urbanizzazione quantificabili in mezzo milione di euro, risparmi forse utilizzati per oliare i meccanismi.
Il procuratore La Guardia ha ora in mano il fascicolo e deciderà nei prossimi giorni la strada da percorrere. Un ulteriore appello questa volta alla Cassazione? Qualche svolta inattese nelle indagini in corso?
Noi nel frattempo, il 15 dicembre avremo occasione di riaffermare il diritto dei cittadini alla salute, alla trasparenza, alla giustizia.
Tre cardini che non hanno mai sostenuto i cancelli del Paip.

Associazione Gestione Corretta Rifiuti e Risorse di Parma - GCR
Parma, 7 dicembre 2012

mercoledì 5 dicembre 2012

Diossine a Forlì, chi cerca trova


di Patrizia Gentilini
Oncologo Isde (Associazione Internazionale Medici per l'Ambiente)

Sul sito del Comune di Forlì, è disponibile la “Relazione finale sui lavori del Tavolo Interistituzionale in tema di diossine/furani e PCB nelle matrici ambientali ed alimentari del territorio forlivese”, frutto di oltre un anno e mezzo di lavoro congiunto fra Asl, Arpa, Comune, Provincia ed Ordine dei Medici di Forlì-Cesena.


Si tratta di un documento importante che merita di essere adeguatamente diffuso e conosciuto.
In esso vengono riportati i risultati di 56 indagini condotte dall’Asl per la ricerca di diossine, furani e PCB eseguiti nel 2011 in allevamenti rurali del forlivese.
Questi campioni si aggiungono alle 5 indagini condotte da parte dell’ISDE nei primi mesi del 2011 su galline ruspanti e uova in relazione alle ricadute degli inceneritori, indagini che, per i livelli riscontrati, avevano suscitato grande sconcerto.
I risultati emersi da questa ulteriore e più nutrita indagine confermano in pieno quanto già a suo tempo segnalato, ovvero una gravissima contaminazione del territorio da parte di questi inquinanti. Infatti, in base alla attuale normativa, su 61 campioni complessivi solo 25 sono conformi; in particolare su 12 galline ruspanti solo 2 rientrano nei limiti e su 24 campioni di uova solo 13.
Se poi i risultati vengono giudicati tal quali senza togliere l’incertezza analitica (ovvero l’errore della misura che giuridicamente deve essere sottratto prima di procedere alla chiusura degli allevamenti), i campioni conformi scendono a 23 e delle 12 galline una sola potrebbe essere consumata.
Gli animali allevati all’aperto, in particolare le galline che razzolano sul terreno, si confermano come indicatori affidabili e fedeli della qualità dell’ambiente in cui sono allevati, in particolare per sostanze lipofile persistenti e tossiche quali diossine e PCB che si accumulano nel terreno ed entrano così nella catena alimentare e nei nostri stessi corpi.
Ricordiamo che diossine, furani e PCB sono una famiglia di 409 molecole a diverso grado di tossicità per l’uomo.
Mentre le diossine sono sottoprodotti involontari di processi di combustione o di sintesi chimiche (in particolare pesticidi), i PCB sono stati prodotti deliberatamente dall’uomo ed anche se la loro produzione è stata vietata dagli anni ’80, data la loro enorme diffusione e stabilità termica ( si decompongono solo oltre i 1000-1200C°), si ritrovano ovunque e in particolare nelle emissioni degli inceneritori, specie se presenti nei rifiuti in ingresso.
I rischi per la salute correlati all’esposizione a tali agenti sono importanti e purtroppo non del tutto noti: certamente la TCDD ( diossina di Seveso), unitamente ad un furano e al PCB 126 sono cancerogeni certi per l’uomo ad azione multiorgano e correlati in special modo a tumori del sangue, mammella, fegato, polmone.
Tuttavia, anche se l’effetto cancerogeno, in particolare per diossina e composti diossino-simili, è stato quello affrontato per primo e quindi più studiato, ciò che oggi emerge con sempre maggiore evidenza per l’insieme di queste molecole è la complessa azione di squilibrio endocrino-immuno-metabolico, per cui l’effetto oncogeno appare essere più una conseguenza, che non una diretta azione.
Di fatto queste molecole rientrano fra gli ‘interferenti endocrini’ e moltissime sono le patologie a loro correlate; patologie purtroppo in drammatico ed esponenziale aumento quali alterazioni del sistema immunitario, specie immunodepressione, del sistema endocrino (in particolare ipotiroidismo), danni all’apparato riproduttivo (infertilità, endometriosi, abortività, parti prematuri, basso peso alla nascita ecc), malformazioni, ma anche danni metabolici quali diabete, obesità, aumento trigliceridi e colesterolo, danni cardiovascolari, disturbi del Sistema Nervoso Centrale e danni neuropsichici specie al cervello in via di sviluppo).
Se è vero che qualunque tipo di combustione genera sostanze tossiche e pericolose (basti pensare al fumo di sigaretta) e che devono essere assolutamente evitati i roghi all’aperto, specie se di potature di alberi trattati con pesticidi e/o legni trattati, o di materiali eterogenei, è altrettanto vero che non può che destare totale disapprovazione l’incentivazione al sorgere di centrali a biomasse e all’incenerimento dei rifiuti ribadito anche nella recente delibera n. 1147/2012 della Giunta Regionale dell’Emilia Romagna in cui si prevede “l’utilizzo prioritario degli inceneritori e termovalorizzatori per lo smaltimento finale dei rifiuti urbani prodotti nel territorio regionale nel rispetto del principio di prossimità“.
Già viviamo nella Pianura Padana, una delle aree più inquinate del pianeta, già abbiamo una incidenza di cancro fra le più alte al mondo, già la contaminazione del territorio come emerge anche dalle indagini sopra riportate è gravissima e tale da compromettere la sicurezza alimentare non solo nostra, ma anche delle generazioni a venire: cosa altro deve succedere perché si cambi rotta?
Infine un’ultima domanda: perché nello studio Moniter, condotto per indagare lo stato dell’ambiente e della salute nella popolazione residente in prossimità degli 8 inceneritori della regione e costato alle finanze pubbliche ben 3 milioni e 400mila euro le diossine sono state cercate ove è pressoché impossibile trovarle, ovvero in aria, e non nelle matrici biologiche?
Solo chi cerca trova, se vuole davvero trovare.

Associazione Gestione Corretta Rifiuti e Risorse di Parma - GCR
Parma, 5 dicembre 2012

martedì 4 dicembre 2012

Oltre l'ambientalismo istituzionale crescono nuove reti


Da una ventina di anni in qua sta emergendo un post-ecologismo "di base" non ideologico che opera nella dimensione del monitoraggio ambientale e della stessa gestione sostenibile e partecipata delle risorse

di Michele Corti
http://www.ruralpini.it/Commenti-01.12.12-Post-ecologismo.htm
Questo contributo nasce dall'interno dell'esperienza del movimento contro le biomasse utilizzate indiscriminatamente a fini energetici e si propone di esaminare come in Italia e nel mondo l'iniziativa ecologista grass roots (termine inglese non facilmente traducibile ma che rimanda a concetti quali "spontaneo", "di base", radicato nella società, nella comunità, nella località) non si limiti al opporsi ad autostrade, centrali energetiche, dighe, cementificazioni ma si esprima anche in iniziative partecipate finalizzate alla gestione delle risorse.


La dimensione oppositiva della protesta "post-ambientalista" e quella propositiva non sono affatto disgiunte ma possono comunque trovare una comune prospettiva al di là di quanto è interesse dei poteri politici ed economici far credere mediante la stigmatizzazione delle proteste quali espressione della "sindrome NIMBY"
Due approcci all'ambiente
Ci sono due approcci alla difesa dell'ambiente. Il primo è concreto: aria che si respira, acqua che si beve, cibo che si mangia, terra che deve produrre pane in futuro, boschi che possono essere coltivati. Ovvero qualcosa non disgiunto da una dimensione sociale, da un "qui" e da un "noi" , da una una gestione sostenibile e oculata delle risorse locali per creare occupazione e reddito in circuiti locali (e non per estrarre energia e risorse da sfruttare per esportare altrove).
Poi c'è quello astratto del quale le organizzazioni ambientaliste si sono arrogate, con la benedizione dello stato, la rappresentanza; tanto astratto da consentire loro di passare dagli spegiudicati accordi con le grandi imprese capitalistiche alla gestione in prima persona dell'ecobusiness (il tutto in nome della "modernizzazione ecologica" (vedi articolo su Ruralpini) per ritornare (regredendo al conservazionismo idealistico di fine XIX secolo) alla difesa simbolica e riparatoria di singole specie animali al di fuori del contesto ecosociale.
A fianco (e spesso in aperto contrasto) con questo ambientalismo largamente professionalizzato, istituzionalizzato, fortemente gerarchico e tecnocratico, inserito nell'apparato di comando e controllo dello stato e del potere economico, è cresciuto nel mondo un nuovo ecologismo che non è più nemmeno quello degli "alternativi" o di minoranze pittoresche. Si tratta di un nuovo (o se si vuole "post") ecologismo che vive in alleanze e reti locali a loro volta collegate con reti più ampie. È un ecologismo "community supported" ovvero sostenuta dalla risorse della comunità, del volontariato, dell'expertise locale) che si impegna nel capillare monitoraggio della qualità dell'ambiente (acque, aria, suolo, salute) ma anche nella gestione delle risorse naturali nei suoi aspetti regolativi ed economici. Che opera nel contesto di meccanismi di deliberazione partecipata, aperti a tutti, che vanno oltre gli strumenti della consultazione, del sondaggio, della partecipazione di Ong a forum e "tavoli" quali quelli calati dall'alto dlel'Agenda 21 locale. Strumenti spesso di facciata o che selezionano l'accesso dei soggetti con maggiore disponibilità di tempo, competenze, denaro. Di questi sviluppi del movimento ecologista parleremo nella seconda parte di questo articolo.
Deficit di partecipazione, protesta, natura del movimento ambientalista
Qui parleremo di quelle forme di iniziativa ambientalista locale, molto diffuse anche in Italia, che vengono spesso rubricate alla "sindrome NIMBY" non volendo (e si capisce bene perché) cogliere la loro valenza propositiva.
Il legame tra queste forme di "nuovo" ecologismo e le aspirazioni ad una democrazia partecipata è molto stretto e ragionare su questo nesso appare di particolare importanza e attualità in Italia dove la cultura della partecipazione è qualcosa di "esotico" rispetto alla tradizione politica. Quest'ultima è basata su una fortissima centralizzazione statale, sull'impari rapporto di forze tra la burocrazia e il cittadino-suddito (non scalfito se non in superficie da una serie di riforme).
Questa impermeabilità della politica e del decision making alla "società civile" e ai cittadini organizzati (al di fuori di aggregazioni istituzionalizzate centralizzate) è stata acuita dalla presenza egemonica in ogni sfera sociale di organizzazioni di massa a forte componente ideologica che - sia pure in crisi - continuano ad influenzare il processo politico e hanno condizionato la natura del movimento ambientalista (basti pensare al persistente ruolo di "cinghia di trasmissione" di Legambiente rispetto a quello che in molti continuano a definite "il partito"). Questi condizionamento hanno fatto si che proteste locali in tema di ambiente e ambientalismo organizzato in Italia abbiano molto spesso viaggiato su binari paralleli quando non si sia registrata una palese insofferenza delle associazioni mazionali per il "movimentismo locale".
Un processo di istituzionalizzazione che in Italia è stato precoce e più marcato
Inutile ricordare che Legambiente (anche se non con questo nome) non nasce come movimento spontaneo ma all'interno di una vecchia "organizzazione di massa" (l'ARCI) con il duplice scopo di adeguare ai nuovi tempi la base e quadri di un PCI largamente refrattario alle nuove idee ambientaliste e di affermare anche nell'ambito della cultura ambientalista l'egemonia gramsciana. Se è vero che in tutti i paesi dove si erano sviluppati i movimenti ecologisti hanno subito un forte processo di istituzionalizzazione perdendo in buona parte la carica radicale politica e morale originaria, e accondiscendendo volontieri al compromesso con i governi e le grandi imprese, va anche sottolineato che in Italia il main stream dell'ambientalismo non ha mai mostrato un'anima movimentista e di protesta, privilegiando sin dall'inizio le forme di pressione sui politici, il ruolo nei tanti organismi consultivi a carattere centrale e locale dove sono ammesse solo le "associazioni riconosciute maggiormente rappresentative a livello nazionale" occupando spazi all'interno di "istituzioni verdi" quali i Parchi i Centri di educazione ambientale ecc., partecipando a tavoli e gruppi di lavoro con le industrie e le amministrazioni . Rispetto alla mobilitazione di piazza, alla contestazione l'ambientalismo ha privelegiato l'opportunità offerta dal sistema di adire nelle aule giudiziarie e nelle sedi consultive. Ha poi sviluppato iniziative editoriali, educative, divulgative, attività di certificazione e attribuzione di "bollini" e "bandiere" (un campo dove si è specializzata Legambiente lasciando al WWF la gestione delle oasi e alcune campagne specializzate). Una linea molto soft in grado si sfruttare le "entrature" con le amministrazioni locali e ministeriali e di ricercare convergenze con le industrie.
Per esercitare queste forme a cavallo tra la lobby di utilità pubblica e l'agenzia di ecobusiness è bastato dotarsi di una struttura centralizzata professionale (Legambiente, WWF) dove l'èlite che gestisce le organizzazioni coopta, per affinità politico-ideologica, elementi dotati di competenze scientifico-tecniche e, al tempo stesso manageriali. Un esempio emblematico di funzionaria "apparatnich" di questo tipo - per di più con doppie cariche PD e Legambiente - l'ho conosciuto lo scorso anno a Galliera nel Bolognese nel corso di un infuocata assemblea contro la realizzazione di una centrale a biogas (1). L'apparato relativamente ridotto (sedi di Roma e Milano) non deve però ingannare sulla reale dimensione delle strutture delle organizzazioni ambientaliste che si estende ad associazioni e società di consulenza "satelliti" in grado di garantire il mantenimento di una più larga cerchia di personale più o meno professionalizzato e a tempo pieno.
Organizzazioni gerarchiche
Un po' diverso è il caso di associazioni fortemente professionalizzate e marcatamente elitarie quali Mountain wilderness e Greenpeace che, quantomeno, non si sono mai atteggiate a "movimento" o degli "Amici della terra" che hanno optato per una struttura leggera facendo valere la capacità di influenza personale dei loro esponenti.
La "base" all'interno delle grandi organizzazioni ambientaliste rappresenta poco più che una giustificazione. Il dissenso degli organismi di base rispetto alle scelte palesemente a favore del business (vedi il caso delle energie rinnovabili ma anche verso accordi con grandi imprese sicuramente con ecofriendly) è messo rapidamente a tacere in forza di una struttura gerarchica. La "base" ha la possibilità di partecipare a rappresentazioni di una partecipazione passiva nel corso di eventi come "Puliamo il mondo"". Muniti di cappellini gialli, pettorine e ramazze i "militanti" di questo ambientalismo ma più che altro i ragazzini delle scuole che - messi in divisa - fanno promozione al brand Legambiente in una strategia scoperta di marketing e fidelizzazione (unico neo anche la Coldiretti usa il giallo e tecniche analoghe). In questa organizzazione fortemente incorporata nell'apparato di comando e controllo politico-istituzionale è difficile parlare di militanza e di partecipazione. In queste organizzazioni l'impulso all'attività procede in modo del tutto unidirezionale: dall'alto verso il basso (bottom up). "[lo staff nazionale] gestisce molte attività, spesso imposte a sedi locali, dotate di pochi soci attivi" (Pelizzoni e Osti, 2003, p. 141). "Molte attività" che hanno anche lo scopo (al di là dei risvolti economici) di tenere occupati i circoli locali (non si sa mai che volessero impegnarsi in qualche iniziativa o protesta contraria alle direttive del vertice).
Prima di passare oltre vorremmo chiarire quella che è l'obiezione che viene normalmente sollevata contro le "critiche moralistiche" all'istituzionalizzazione. Essa si basa sulla necessità di dotare un movimento, cessata la spinta entusiastica iniziale, di strutture permanenti al fine di evitare di disperderne il patrimonio, sulla constatazione che governi e multinazionali si sono "fatti più sensibili" ai problemi dell'ambiente se non altro perché si rendono conto dei danni economici che anch'essi ricevono dal degrado ambientale, ma poi anche perché si sono resi conto delle opportunità dell'ecobusiness in termini di nuovi mercati, prodotti, tecnologie. Sarebbe assurdo rifiutare di portare competenze, valori sollecitazioni a chi si dimostra così bene intenzionato. L'altra giustificazione alla messa in soffitta del movimentismo consisterebbe nella non utilità degli strumenti della protesta a fronte dell'esistenza di Ministeri dell'ambiente, Agenzie per l'ambiente, legislazioni e "tavoli" di ogni tipo che non possono essere considerati controparti ma interlocutori nel mentre una gererale diffusione di "coscienza ambientale" rende meno acuti i problemi e offre opportunità alla collaborazione. Un quadro idilliaco che è però messo in discussione dall'evidenza che gli interessi finanziari e industriali guardano all'ecobusiness in modo rapace non rinunciando a grandi opere costose e impattanti, insistendo su soluzioni del problema di gestione dei rifiuti e di produzione energetica che premiano il profitto incuranti della salute e dell'ambiente (come dimostra la corsa alle combustioni - drogata dai contributi per la produzione di energia elettrica- che scoraggia il riciclo e il riutilizzo della materia). Sono diminuite le aggressioni al territorio? No di certo. Non ci sono più motivi di mobilitazione e protesta? No di certo? Così la protesta si incanala al di fuori dell'alveo istituzionalizzato.
Pompieri della protesta
Le organizzazioni ambientaliste si pongono spesso nel ruolo di "pompieri" delle proteste locali fino ad assumersi, per conto degli interessi economici e politici promotori di interventi fortemente impattanti e insostenibili, il compito di delegittimare le iniziative spontanee. Da questo punto di vista le organizzazioni ambientaliste:
"non hanno una linea univoca verso le proteste locali: in alcuni casi sono al fianco del comitato di turno, in altri sono piuttosto fredde rispetto a manifestazioni di ostilità che considerano irrazionali e particolaristiche" (Pelizzoni e Osti, 2003, ivi)
Le motivazioni che spiegano atteggiamenti diversificati rispetto a proteste spontanee di uguale segno si possono spiegare facilmente con due criteri: 1) il colore politico delle amministrazioni, multiutility, gruppi imprenditoriali o cooperativi verso i quali si indirizzano le proteste; 2) il coinvolgimento dei circoli locali nella protesta (anche se, come già rilevato, Legambiente non esita a scomunicare i circoli troppo attivi nelle proteste, specie se dirette contro soggetti "amici").
NIMBY: una stigmatizzazione strumentale e senza fondamento
Per "pompierare" o denigrare apertamente i comitati locali di protesta esiste una parolina magica: NIMBY. NIMBY è un concetto tanto indefinito quanto evocativo e di larga presa popolare.
L'associazione europea dell'energia eolica arriva a sostenere che il principale ostacolo alla diffusione dell'energia eolica è rappresentata dalla "opposizione della gente del posto (nimby)" (EWEA, 2009). Ma è proprio vero che NIMBY significa egoismo, localismo gretto e difensivo? È proprio vero che l'iniziativa locale è capace solo di "dire di no", di muoversi sul piano oppositivo, senza proporre soluzioni alternative, senza tentare di essere propositiva? Va innanzitutto precisato che il tanto chiamato in causa "effetto NIMBY" inteso come opposizione a qualsiasi turbativa "in my backyard" ovvero sulla mia soglia di casa (con il corollario del "fatto da un'altra parte mi va bene" molto spesso si dimostra del tutto inadeguato a spiegare l'opposizione alla installazione di impianti di energie rinnovabili. Nel caso delle pale eoliche in Olanda si è visto che il grado di opposizione non è per nulla correlato alla distanza tra il luogo di residenza e le pale (Wolsink, 2006). In una successiva pubblicazione (Wolsink, 2010) rianalizzando le motivazioni dell'opposizione all'energia eolica arriva a concludere che la "sindrome NIMBY" è un mito. Nonostante diverse ricerche sul campo abbiano smentito l'ipotesi NIMBY gli appelli (Burningham, 2000 Wolsink, 2006) a non utilizzare in ambito accademico il termine sono rimasti largamente inascoltati. Ciò nonostante che sia stato messo chiaramente in evidenza come esso appaia di parte essendo utilizzato dai proponenti degli impianti e rifiutato dagli oppositori (Wolsink, 1994; Burningham, 2000; Upreti, 2004). Burningham (2000) si è espresso in modo molto netto: "Il termine NIMBY è spesso usato da chi propone la realizzazione degli impianti come un modo sbrigativo per screditare chi si oppone ai progetti"
Il fatto poi che si utilizzino ulteriori qualificazioni come "NIMBY egoistico" per distinguerlo da iniziative "NIMBY" a forte matrice oppositiva ma chiaramente collettiva e su obiettivi che non possono essere ricondotti ad una gretta chiusura particolaristica, conferma che la valutazione dei movimenti di protesta locale deve essere riconsiderata. Luigi Bobbio (Bobbio, 2011) esaminando alcuni casi di proteste contro grandi opere (TAV e altro) scrive che:
"Le narrazioni che ho esaminato ci permettono anche di capire che in tali conflitti l’oggetto del contendere è tutt’altro che univoco. Appena ci sembra di aver compreso che la contesa verte su un certo aspetto, ne compare immediatamente un altro, e poi un altro ancora. Più partite si giocano in uno stesso conflitto. Esse riguardano – spesso simultaneamente – la natura dell’interesse generale o particolare, l’esistenza di interessi occulti, la ridefinizione dei costi e dei benefici, la valutazione del rischio, il potere decisionale delle comunità coinvolte e la loro identità, la possibilità di percorrere vie alternative allo sviluppo".
Mentre i media continuano a veicolare la protesta "NIMBY" come retrograda, egoistica, particolaristica si fa così strada l'interpretazione che vede gli oppositori locali come assertori di un nuovo modello di sviluppo ("decrescita felice") collocandosi “oltre il Nimby” (Fedi e Mannarini, 2008). Più realisticamente nelle proteste locali convivono varie pulsioni e il confine tra difesa particolaristica e asserzione di nuovi valori sociali, ecologici non è netto. Specie se si considera che alla base delle proteste vi sono spesso motivazioni che si fondano su condizioni di svantaggio territoriale (in alcuni casi per la presenza di altri impianti energetici e infrastrutture), l'inaccettabile sproporzione tra vantaggi privati e costi sociali e territoriali, il rigetto delle manipolazioni tendenti a promuovere una non verificata necessità e sostenibilità globale e locale delle opere proposte. Non meraviglia che ci siano movimenti e associazioni che si auto-attribuiscano orgogliosamente l'appellativo di NIMBY, non solo negli Usa ma anche in Italia. Un caso esemplare è rappresentato da Nimby Trentino, un'associazione indipendente da ogni partito, gruppo o associazione ambientalista che è riuscita da sola (con gli ambientalisti "ufficiali" che stavano a guardare o che remavano contro) a stoppare l'inceneritore di Trento a Ischia Podetti (2).
Il ruolo ambiguo dell'ambientalismo istituzionale
La stigmatizzazione associata all'etichetta NIMBY pesa sugli atteggiamenti di chi si oppone (o vorrebbe) opporsi agli impianti eolici o a biomasse. Van der Horst (2007) ha osservato che nelle indagini sul campo relative all'opposizione locale ha osservato come "gli intervistati cercano deliberatamente di non essere etichettati come NIMBY citando altre 'legittime' ragioni di opposizione alla realizzazione di un impianto in ambito locale". La paura di essere considerati NIMBY e di opporsi ad una scelta presentata non solo come necessaria ma etica induce gli oppositori degli impianti ad atteggiamenti difensivi, riduce il consenso per le proteste, li fa "sentire in colpa". Un risultato ottenuto grazie alle campagne sulle conseguenze dell'effetto serra, l'importanza del protocollo di Kyoto, la necessità e la bontà della scelta delle energie cosiddette rinnovabili in cui le organizzazioni ambientaliste istituzionalizzate hanno svolto un ruolo di primo piano. Non meraviglia che in Germania, dove la preoccupazione per l'effetto serra, è superiore ad ogni altro paese (Brechin, 2003) il consenso per l'uso energetico delle biomasse raggiunga l'85% (Zoellner et al. 2008). Peccato che a questo consenso siano associate delle pie menzogne, ovvero che le energie rinnovabili comportano più posti di lavoro e, alla lunga, energia più a buon mercato.
Basta leggere le cronache del movimento in atto in Italia contro l'uso indiscriminato dell'energia da biomasse per constatare come anche da noi le società proponenti la realizzazione delle centrali, politici, giornalisti, ecologisti "istituzionali" evochino ad ogni piè sospinto il rischio del NIMBY (da qualche tempo a questa parte "rinforzato" con lo spettro del NO TAV). Quello che è interessante è che Legambiente & C. non si limitano a screditare i movimenti spontanei, a fare i pompieri delle proteste, ma, con un salto di qualità notevole, abbiano non solo sposato la tesi: "proteste locali = NIMBY" ma anche assunto un ruolo "di polizia" attraverso un progetto di "monitoraggio" delle proteste.
NIMBY FORUM. Legambiente partecipa al "monitoraggio" delle proteste
Cos'è NIMBY FORUM (marchio registrato)? Uno dei tanti progetti in cui l'ambientalismo istituzionalizzato opera con gli organi dello stato e con le grandi imprese ma anche qualcosa che attiene da vicino al tema che stiamo affrontando. Dal sito (http://www.nimbyforum.it/home) apprendiamo che:
Nimby Forum è un progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris - Agenzia di Ricerche Informazione e Società. Nato nel 2004 con l'obiettivo di analizzare l'andamento della sindrome NIMBY (Not In My Back Yard), Nimby Forum costituisce oggi il primo e unico database nazionale delle opere di pubblica utilità che subiscono contestazioni e si è accreditato come importante think tank sul tema.
Il progetto è patrocinato dal Governo italiano e da Legambiente. Nel comitato scientifico del progetto Nimby Forum siede il presidente di Legambiente (in compagnia del ministro Clini, di vari grand commis dell'apparato statale e di ... Rosa Filippini del "Amici della Terra". Quanto a Aris dal sito non si evince nulla al di fuori del fatto che è impegnata, oltre che nel Nimby Forum anche in altri due progetti "Festival dell'energia" e "L'energia spiegata". Nulla si dice circa chi compone l'associazione (qualche curiosità l'avremmo in proposito...) e di chi la sostiene salvo che: l'associazione "sviluppa le proprie attività grazie al contributo di singoli individui e al sostegno di istituzioni e imprese che credono negli obiettivi dell’Associazione e nei valori che essa promuove".
I dati emersi nel corso delle diverse edizioni di Nimby Forum hanno delineato il ritratto di un Paese bloccato a causa del continuo aumento dei fenomeni di opposizione alla costruzione di opere e infrastrutture: la ricerca ha evidenziato la crescita costante del numero degli impianti censiti (283 nel 2009). Ogni tipologia di opera è avvertita dai territori come una potenziale minaccia alla salute e all’ambiente, che si tratti di discariche o impianti a fonti rinnovabili e indipendentemente dal fatto che si parli solo di ipotesi di progetti o di impianti già in funzione.
Uno dei "prodotti" di NIMBY FORUM è la mappa della protesta (in home page). Qualcuno potrebbe pensare che più che volontà di dialogo questo "monitoraggio" potrebbe essere motivato da volontà di controllo della protesta. Un po' poliziesco ad essere maliziosi.

(fine della prima parte, prosegue)

Note:
(1) Ecco come avevo descritta Claudia Castaldini: due lauree (fisica e astronomia) e doppie cariche (nel Pd, responsabile provinciale ambiente nonché membro dell'esecutivo del partito, in Legambiente responsabile energia). "È fredda come il ghiaccio e si vede che è lì solo per bere l'amaro calice e affrontare, per dovere d'ufficio, una platea schierata su ben altre posizioni. Oltretutto la giovane funzionaria non fa nulla durante il suo intervento per stemperare il muro di ghiaccio e rimbecca stizzita ad ogni minima interruzione senza capire che un'assemblea spontanea non è un congresso scientifico o un politburo e lasciando trasparire la distanza siderale tra lei e il 'plebeo' e 'demagogico' consesso [...]".
(2) Nimby trentino si è costituita come associazione per informare e argomentare costruttivamente sui migliori modi (al fine della salvaguardia della salute e della tutela del territorio), di gestione e di smaltimento dei rifiuti, siano essi urbani, industriali o speciali. Con la certezza che il Trentino saprà rinunciare alla prospettiva dell'inutile e inquinante inceneritore. Che è stato bloccato. Inutile sottolineare che nella vicenda dell'inceneritore di Trento come di tante altre simili, le organizzazioni ambientaliste o sono state alla finestra o si sono collocate "dall'altra parte della barricata".
Bibliografia
Bobbio L. (2011) Conflitti territoriali: sei interpretazioni, TemaLab 4 (4): 79-88.

Brechin S. R. (2003) Comparative Public Opinion and Knowledge on Global Climatic Change and the Kyoto Protocol: The U.S. versus the World? International Journal of Sociology and Social Policy 23 (10): 106-134.

Burningham K., Thrush D. (2004). Pollution concerns in context: a comparison of local perceptions of the risks associated with living close to a road and a chemical factory. Journal of Risk Research 7 (2): 213–232.

Burningham K. (2000) Using the language of NIMBY: a topic for research,not an activity for researchers. Local Environment 5 (1): 55–67.

EWEA (2009) European Wind Energy Association: wind energy — the facts. London: Earthscan.
Fedi A., Mannarini T. (2008) Oltre il Nimby. La dimensione psico-sociale della protesta contro le opere sgradite, Milano, Franco Angeli.
Horst D. van der (2007) NIMBY or not? Exploring the relevance of location and the politics of voiced opinions in renewable energy siting controversies, Energy Policy 35 :2705–2714.

Upreti, B.R., van der Horst, D., 2004. National renewable energy policy and local opposition in the UK; the failed development of a biomass electricity plant. Biomass & Bioenergy 26 (1): 60–69.

Wolsink M. (1994). Entanglement of interests and motives: assumptions behind the NIMBY-theory on facility siting. Urban Studies 31 (6): 851–866.

Wolsink M. (2000). Wind power and the NIMBY-myth: institutional capacity and the limited significance of public support. Renewable Energy 21: 49–64.

Wolsink, M. (2006) mInvalid theory impedes our understanding: a critique on the persistence of the language of NIMBY. Transactions of the Institute of British Geographers 31: 85–91.

Zoellner J., Schweizer-Ries P., Christin Wemheuer C. (2008) Public acceptance of renewable energies: Results from case studies Germany Energy Policy 36:4136–4141

Associazione Gestione Corretta Rifiuti e Risorse di Parma - GCR
Parma, 4 dicembre 2012

lunedì 3 dicembre 2012

Il sacco (nero) di Parma


Il mattino dopo sono andato in ufficio, in sala di attesa, un giovane prendeva il caffè alla macchinetta.
Dopo averlo finito, ha guardato con attenzione i contenitori per decidere il destino del suo bicchierino di plastica: giallo o blu?
Con scioltezza ha poi scelto quello blu.



Tornato a casa, ho cominciato a scrivere.
Non siamo dispensati dal rispetto delle regole ambientali solo perché siamo in ritardo, o abbiamo degli impegni, o siamo molto indaffarati.
Se abbiamo imparato a mandare un sms, se siamo riusciti a spedire con il bluetooth, se sappiamo andare su internet e su facebook, youtube, twitter, allora possiamo anche imparare a gestire i nostri rifiuti in maniera intelligente.
Non è difficile.
Non lo è per una società educata a questo, una società che ha piacere a farlo.
Non lo è se ci sono istituzioni che guidano la società in questa direzione.
Un ente locale come il comune deve creare una cultura ecologica.
Deve istruire tutti alla raccolta differenziata e alla riduzione dei rifiuti.
Deve fare ogni possibile sforzo per educare alla produzione intelligente dei rifiuti i cittadini, ma anche le attività commerciali.
I cinema che i bar, le gelaterie, le pizzerie, i supermercati, devono avere gli strumenti per ridurre i rifiuti e dovrebbero comunque essere obbligati a ridurre al massimo la produzione di rifiuti e fare la raccolta differenziata spinta.
Le regole arrivano dalle istituzioni, ma la gente deve collaborare.
Ridurre gli imballaggi, utilizzare contenitori riutilizzabili e completamente riciclabili, riprogettare, tutto questo rappresenta la direzione verso cui andare.
Nei parchi, davanti alle scuole, nei punti di passaggio, ci devono si essere cestini multicolore per permettere alla gente di differenziare in strada tutto quello che ci si ritrova in mano nella normale quotidianità.
E i cittadini devono essere portati a fare buon uso degli strumenti che vengono messi a disposizione.
Le regole del rispetto dell’ambiente in cui viviamo, il rispetto del prossimo e il rispetto delle prossime generazioni, riguardano tutti.
Non possiamo pensare di riuscire a fare una raccolta totale differenziata se non partecipiamo tutti a questo progetto.
Anche in questa ottica l'inceneritore è davvero inutile e antiecomico, un obsoleto arnese del passato remoto.

Associazione Gestione Corretta Rifiuti e Risorse di Parma - GCR
Parma, 3 dicembre 2012